La premessa necessaria a questo post è che non ci sono emozioni positive o negative, buone o cattive, giuste o sbagliate. Noi persone le emozioni le proviamo e basta, è la nostra natura, e tutte, anche quelle più spiacevoli e scomode, hanno una funzione psicologica che ha lo scopo di segnalarci cosa non va e di cosa abbiamo bisogno, dandoci così la possibilità di scegliere se e come accogliere e usare quella informazione. In sostanza, le emozioni ci aiutano a vivere meglio (il meglio più umanamente realistico possibile in quella data circostanza).
Diversamente dai vissuti che proviamo, tutti legittimi dunque, sono i comportamenti che mettiamo in atto spinti da essi ad essere più o meno funzionali. E quando pensiamo alla rabbia, spesso rischiamo di svalutare l’utilità di questa emozione focalizzandoci sull’inadeguatezza e il disagio del comportamento che ne può derivare, specialmente quando questo sfocia in aggressività o in qualche manifestazione non controllata.
Per tante persone, la soluzione è ignorarla, evitando di esprimerla fino a reprimerla. Una scelta comprensibile e che ha sicuramente un senso nella storia specifica di ognuno, ma non senza conseguenze sul proprio benessere psicologico e anche sulla qualità delle proprie relazioni.
Un bisogno calpestato: quello di rispetto
Le sfumature del nostro mondo emotivo, dunque, sono lì per segnalarci qualche bisogno che richiede la nostra attenzione e cura. Come tutte le emozioni che noi persone sperimentiamo naturalmente, infatti, anche la rabbia è utile e ha una chiara funzione psicologica: ci arrabbiamo quando ci sentiamo calpestati o invasi, cioè quando il nostro bisogno di rispetto viene violato.
Così, quando escludiamo la rabbia dal nostro repertorio emozionale ed espressivo ci togliamo la possibilità di ascoltare e soddisfare una parte di noi, quella che ci segnala che stiamo vivendo un’ingiustizia e ci suggerisce di rivendicare il nostro bisogno di essere rispettati ristabilendo un confine con l’altra persona. Silenziandolo, rischiamo di rinunciarvi. Di rinunciare al rispetto per noi stessi.
Dove finisce la rabbia inespressa?
Reprimendo la rabbia che sentiamo, rischiamo di rivolgerla contro di noi, criticandoci tanto o facendola accomodare in qualche parte del nostro corpo (potrebbe sfociare, poi, in qualche sintomo fisico: mal di testa, disturbi allo stomaco, infiammazioni). Oppure di ottenere proprio l’effetto che stiamo cercando di evitare: dopo averla accumulata, esplodere in comunicazioni aggressive e urlate, che lasciano poi sensi di colpa e inadeguatezza, confermando così l’idea che trattenerla e tenerla per sé rimane l’unico modo di avere a che fare con la rabbia.
Una scelta consapevole
Concedersi il diritto di provare rabbia non comporta automaticamente buttarla fuori distruggendo tutt’intorno, né esprimerla e condividerla sempre e comunque.
Anche non manifestare la rabbia che si prova in un dato momento è una possibilità: esistono contesti e situazioni, infatti, in cui esprimerla potrebbe rivelarsi controproducente o poco protettivo.
Tuttavia, se da un lato, comunicarla o meno può essere una scelta, dall’altro, possiamo renderla una scelta consapevole e più rispettosa di noi, occupandoci di quegli aspetti della nostra storia e di noi stessi che ci sembra interferiscano con il modo in cui ci piacerebbe vivere il nostro presente.
[Ho scritto questo post nel 2016, e l’ho rivisto, aggiornato e arricchito sette anni dopo]
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