La cosiddetta sindrome dell’impostore è un fenomeno psicologico parecchio comune, che vive chi non si ritiene meritevole di un determinato successo, ruolo o prestazione. Anche in presenza di elementi che supportano il contrario, tende ad attribuire il merito dei propri risultati scolastici e lavorativi a fattori esterni: un colpo di fortuna, il proprio aspetto fisico, un errore di valutazione.
Si sente, appunto, come un impostore, che non ha il diritto di ricevere quel voto a scuola o quella promozione al lavoro, perché non abbastanza in gamba, capace, competente, qualificato, e che vive nel timore che prima o poi anche gli altri se ne accorgeranno.
Di sindrome dell’impostore si parla tanto riferendosi ai successi lavorativi (sentiti come non meritati), tuttavia nel mio lavoro riscontro le stesse sensazioni e convinzioni anche nei contesti relazionali. Ad esempio, in quei pazienti che non si sentono degni della stima e dell’affetto del partner, perché non si ritengono alla sua altezza; o che temono metterà fine alla loro relazione quando li conoscerà a fondo e scoprirà che, in realtà, non sono abbastanza forti, intelligenti, divertenti.
In generale, le persone che si sentono degli impostori hanno poca fiducia in sé stesse e nel proprio valore (come persona, partner, genitore, studente, professionista) e per questo possono sperimentare una forte ansia in tutte quelle situazioni in cui è richiesta una loro prestazione.
Se da un lato, tendono a minimizzare i risultati raggiunti (ad esempio, raccontandoli come eventi fortunati o facili da realizzare) e a rifiutare i complimenti e i riconoscimenti degli altri (magari ricorrendo a qualche battuta umoristica con cui si prendono in giro); dall’altro, tentano inconsapevolmente di nascondere al mondo quella che sentono come una reale incapacità imponendosi standard talmente elevati da essere irraggiungibili da chiunque, per poi scontrarsi con la frustrazione di non riuscire a soddisfarli e convalidare l’idea secondo cui non sono effettivamente abbastanza capaci, e dunque meritevoli di (quel) successo.
Insomma, un circolo vizioso che può generare grande stress, alimentare l’ansia e la tendenza a criticarsi tanto, e nutrire una scarsa stima di sé.
Sindrome dell’impostore: fenomeno, non disturbo psicologico
La prima a parlare di fenomeno dell’impostore è stata la psicologa Pauline Clance alla fine degli anni ’70, prima identificandolo in ambito universitario durante le consulenze con studenti timorosi di non meritare gli elevati risultati raggiunti, e poi avviandone uno studio su un gruppo di donne di successo, rispettate professioniste di alto livello o studentesse dal rendimento eccellente.
Studi successivi hanno poi evidenziato come questo fenomeno, in realtà, non sia prerogativa del mondo femminile, ma diffuso anche tra gli uomini e in vari settori e contesti.
Ad oggi, la sindrome dell’impostore non è diagnosticabile come un disturbo psicologico, in quanto non riconosciuta come tale.
Se penso alla mia pratica clinica, direi che l’esperienza vissuta da chi manifesta questo fenomeno può essere riscontrata in più di un disturbo e in diversi tratti di personalità. In ogni caso, il lavoro terapeutico grazie a cui viene affrontata e superata in terapia questa e le altre problematiche in generale, tiene conto di un quadro molto più ampio e complesso della singola diagnosi psicologica.
Un quadro che si basa, prima di ogni altra cosa, su un quesito tanto semplice quanto fondamentale: di cosa ha bisogno questa specifica persona per stare meglio?
Conviverci o prendersene cura?
Navigando nel web, mi imbatto frequentemente in consigli e incoraggiamenti per far fronte alla sindrome dell’impostore: liste di azioni da seguire, pensieri da abbandonare, atteggiamenti da adottare per smettere di sentirsi una persona indegna dei propri successi.
Il limite principale di tutti questi consigli, potenzialmente validi e formulati con le migliori intenzioni, è che si rivolgono solo alla mente razionale delle persone, producendo raramente un effettivo cambiamento nel modo in cui queste si percepiscono (ossia, come impostori). E, in alcuni casi, provocando anche l’effetto contrario.
Insomma, la sensazione di essere indegni e immeritevoli di qualsiasi buon risultato si riesce a realizzare, è talmente intensa e profonda che non sarà possibile lasciarla andare fermandosi alla superficie.
Imparare ad accettare i complimenti invece di rifiutarli, ad esempio, può rivelarsi un suggerimento utile per riconoscere come si reagisce automaticamente quando si riceve un complimento (per esempio, rispondendo che è stata solo fortuna!), e quindi a prendere consapevolezza di come e quanto ci si svaluti dinanzi agli altri.
Tuttavia, se da un lato divenirne consapevoli può essere un ottimo punto di partenza per decidere di cambiare la propria idea di sé, e anche per modificare le proprie risposte automatiche sostituendole con un gentile grazie!; dall’altro, potrebbe essere difficile sentirsi finalmente capace, competente e degno di quei complimenti, senza aver affrontato questa difficoltà anche su un piano emotivo attraverso un lavoro psicoterapeutico.
Tante persone che manifestano la sindrome dell’impostore, infatti, sanno di aver raggiunto determinati risultati, specialmente quando questi hanno richiesto un notevole impegno da parte loro, ma non riescono a goderne né a sentirsi soddisfatte per questo, come se non li riguardassero davvero o appartenessero a qualcun altro.
Anche tenere traccia dei propri traguardi e festeggiarli è un’azione che può aiutare a convivere con la sindrome dell’impostore, confrontandosi costantemente con i dati di realtà, tenendola a bada, a volte mettendo anche in discussione alcuni pensieri limitanti, come quello che i propri risultati siano opera della fortuna o del tempismo. In sostanza, è un tentativo di (ri)appropriarsi delle proprie capacità e meriti, il cui risultato, quando presente, è di breve durata e contribuisce ad accrescere l’ansia di dover soddisfare delle aspettative di cui non ci si reputa all’altezza.
Senz’altro, essere consapevole dell’immagine maturata di sé stessi e anche del modo in cui questa influenza il proprio benessere psicologico, rappresenta il primo passo per cambiare le cose. Per scegliere se convivere con quel che si pensa intimamente di sé, o se invece prendersene cura, trasformando amorevolmente e con pazienza quell’immagine che rende faticoso apprezzarsi, accogliere i riconoscimenti degli altri, sentirsi padroni del proprio valore e capacità, e di godere di quel che si è già realizzato e che si potrà, ancora, realizzare.
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